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GIORGIO DI GENOVA

AMEDEO GIACOMINI

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ERNESTO UGO GRAMAZIO

JEAN PIERRE JOUVET

BRANE KOVIČ

CAMILLO SEMENZATO

VITTORIO SGARBI

EMILIO VEDOVA

MARCELLO VENTUROLI

ANDRE' VERDET

Tra i segnali più riconoscibili del vandalismo, indipendentemente dall’incuria, dalla cattiva gestione, dalle polemiche che si possono fare sopra l’ineducazione che porta alla rovina dei monumenti, ci sono anche fatti che hanno qualcosa di infantile: mi riferisco alla tendenza che gli uomini hanno di lasciare, sopra gli affreschi o sopra alle colonne di monumenti antichi, memoria del proprio passaggio in forma di date e nomi, e magari anche cuori trafitti da frecce.
E’ un’abitudine, un vizio, che non appartiene, come si potrebbe credere, solo ai nostri tempi, bensì risale per secoli il corso del tempo, tanto che, talvolta, è stato efficace per individuare il momento di esecuzione di affreschi di cui non si avessero documenti. Col tempo, quindi, quello che era vandalismo diventa anche utile sul piano del documento. Certo, i motivi principali che portano alcuni a segnare in questo modo il proprio passaggio sono comunque la mancanza di vita, la stupidità, la breve illusione di vincere il senso della propria fugacità. Ma in alcuni casi l’esito di tale gesto altrimenti vandalico, distruttivo, è invece edificante, costruttivo, persino ispirazione per un’intera poetica. Come nel caso di un artista contemporaneo che si chiama Giorgio Celiberti di cui il 24 Ottobre si inaugurerà una mostra allo “Show Room” di Telemarket a Bologna.
Celiberti ebbe una suggestione molto forte visitando, vicino Praga, Terezin, un campo di concentramento dove i nazisti internavano i bambini ebrei, e trovando sui muri delle baracce le tracce, i segni e i disegni lasciati dai piccoli internati durante la loro orribile permanenza in quel luogo di supplizio e di violenza; graffiti come i segnali di vita nell’imminenza della morte. Scrive Celiberti: “ Quello fu il momento più drammatico della mia storia di pittore, prima dipingevo nature morte, animali, interni, esterni, in un modo più o meno astratto; poi mi sono imbattuto in quei muri con i segni dei bambini, in quelle tragiche finestre, in quei cuori rossi e bianchi, in quelle cancellature, elenchi, farfalle, piccole foto, colonne di numeri. Da quel momento ho vista tutta la mia pittura per segni e testimonianze, come qualcosa che meritasse di essere riferito perché già aveva durato la fatica di vivere e sopravvivere questa strana vita-morte che mi commuove”.
Vedremo quindi in questa luce le immagini di questo artista nei quadri che sono in mostra a Bologna. Giorgio Celiberti, si è formato a fianco di due artisti, Emilio Vedova e Tancredi, che hanno costituito in modi opposti esperienze molto riconoscibili della ricerca non figurativa di questo secolo: Vedova con una pittura di azione, segnale di un confronto con la storia, e Tancredi con una pittura lirica, segnale di una visione intimistica, privata, una dimensione nella quale l’amore e la passione sono i dati più importanti, anche contro la storia. Oscillando fra questi due poli, nella sua ammirazione per Vedova e nel suo sentimento di amicizia per Tancredi, Celiberti ha trovato una strada di grande e asciutta qualità, che rinuncia al gesto libero e in qualche modo incontrollabile della ricerca di Vedova e rialza la dimensione intimistica di Tancredi. C’è nella sua opera un rapporto con la storia, con i luoghi; Celiberti è un grande viaggiatore, un avventuriero di luoghi; così come l’Achab di Melville, egli ricerca una utopia nel viaggio: dai luoghi che ha toccato non riporta né uomini né monumenti, bensì una traccia che è un segnale interiore, segni – che poi sono quelli con cui lui si esprime – che incidono il corpo e la memoria. Di fronte a opere come le sue, così riconoscibilmente non figurative, abbiamo un’inconsueta e immediata sensazione di autenticità: non sono ricerche sperimentali, hanno una verità di terra e una verità di emozioni che sono quanto resta dopo la tragedia della storia e dopo il movimento del viaggio, come se si fosse raggiunto e individuato del viaggio, come se si fosse raggiunto e individuato qualcosa che trova il proprio simbolo nel ricorrere di questo segno tipico, quello del cuore, un segno come infantile, che ha nella sua pulizia e ne riconoscibile momento di felicità un punto di partenza drammatico che è appunto la visita al carcere di Terezin.
Questo punto di partenza, che è un punto di partenza drammatico, in realtà fa riflettere Celiberti e noi, sulla naturale verità e sulla spontaneità euforica dei graffiti – anche più selvatici, più barbarici – di coloro che sui monumenti, sugli affreschi, ovunque lasciano il loro segno, convinti che questo rimanga come una epigrafe; è un segno che rappresenta s’ la loro incultura di vandali ma anche la tenerezza di una volontà di farsi riconoscere, di sopravvivere, di rimanere come nello stesso corpo, come conviventi con la stessa bellezza che hanno violentato. L’idea del graffito, quest’idea di frammento mentre rimane ancora unitario il sentimento, è quindi un’idea positiva che, tolta dal muro storico e trasportata nel muro ideale che è il supporto delle composizioni di Celiberti, muove le sue opere apparentemente astratte, ma non meno vere e vive e che sono lontane dalla ricerca che io ho sempre indicato anche in questi anni come più interessante, cioè la ricerca di artisti neo-metafisici e comunque figurativi. Celiberti è in realtà un figurativo dell’anima, e cioè riesce a rappresentare in modo realistico i sentimenti della sua profonda interiorità, qualcosa che quindi si segna sul suo cuore, mentre si segna sul muro; pittore di memoria e pittore di emozioni. Nei suoi muri graffiati c’è anche un altro elemento molto importante, cioè il recupero della espressività primitiva. Quando noi pensiamo agli esordi dell’arte, pensiamo a qualcosa che proprio nel gesto, nella naturalezza del gesto ritorna da arte a natura, e quindi confonde se stesso con quello che preesisteva, essendo in fondo il punto iniziale, sorgivo dell’arte. Se noi allora mettiamo insieme la civiltà d’avanguardia, con la sua vocazione a dei sentimenti puri, e il recupero di un mondo primitivo non visto nella dimensione esotica, cioè quella dei primitivi che da Gaugin a Picasso stanno fuori dal mondo occidentale, capiamo come appunto le tendenze sperimentali e la civiltà delle origini stiano alla base dei dipinti di Celiberti, dipinti che hanno essenzialmente una verità immediata: quella del gesto come corrispondenza e continuazione di un’emozione interiore.

Vittorio Sgarbi

(in, Celiberti, presentazione di Vittorio Sgarbi, Giorgio Corbelli editore, 1998)

 

 

“… Celiberti è in realtà un figurativo dell’anima, e cioè riesce a rappresentare in modo realistico i sentimenti della sua profonda interiorità, qualcosa che quindi si segna sul cuore, mentre si segna sul muro; pittore di memoria e pittore di emozioni. Nei suoi muri graffiati c’è anche un altro elemento molto importante, cioè il recupero della espressività primitiva. Quando noi pensiamo agli esordi dell’arte, pensiamo a qualcosa che proprio nel gesto, nella naturalezza del gesto ritorna da arte a natura, e quindi confonde se stesso con quello che preesisteva, essendo in fondo il punto iniziale, sorgivo dell’arte. Se noi allora mettiamo insieme la civiltà d’avanguardia, con la sua vocazione a dei sentimenti puri, e il recupero di un mondo primitivo non visto nella dimensione esotica, cioè quella dei primitivi che da Gaugin a Picasso stanno fuori dal mondo occidentale, bensì il mondo primitivo che si recupera nella tradizione del mondo contadino, capiamo come appunto le tendenze sperimentali e la civiltà delle origini stiano alla base dei dipinti di Celiberti, dipinti che hanno essenzialmente una verità immediata: quella del gesto come corrispondenza e continuazione di un’emozione interiore…”

Vittorio Sgarbi

(in, Giorgio Celiberti, , Edizioni Telemarket Communication, 2002)

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